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Industriale, Rivoluzione.

Espressione adottata dagli storici economici ed entrata nel linguaggio comune per indicare il grande processo di trasformazione economica verificatosi in Inghilterra nel primo periodo compreso tra gli ultimi decenni del XVIII sec. e i primi del XIX. Si tratta di un processo che, mediante l'applicazione alla tecnica produttiva delle nuove invenzioni meccaniche, portò a una rapida trasformazione della Gran Bretagna da Paese prevalentemente agricolo in "officina del mondo", e che nel corso del XIX sec. e agli inizi di quello successivo si diffuse nel resto d'Europa, dopo aver già largamente coinvolto gli Stati Uniti d'America. La r.i. sconvolse dalle radici antiche relazioni e istituzioni sociali. Come rileva G.D.H. Cole nella sua Storia del movimento operaio inglese, 1789-1947 (trad. it. 1965), essa distrusse l'antica vita di villaggio e creò il problema della nuova città industriale; costrinse il Parlamento inglese a riformarsi ed elevò la classe media al potere politico e alla proprietà; creò, infine, la moderna classe dei salariati, ossia il proletariato che, formalmente libero, può di fatto vivere soltanto vendendo il proprio lavoro in cambio di un salario. Ovviamente, questo non significa che prima della r.i. non vi fossero salariati. Tuttavia, soltanto in conseguenza di nuovi sistemi e rapporti di lavoro, i lavoratori salariati divennero consapevoli di rappresentare una classe a sé e cominciarono a organizzarsi. Pertanto, creando il proletariato, la r.i. diede anche origine al movimento del lavoro. ║ Lo sviluppo del capitalismo: la fase decisiva del processo di r.i. si ebbe quando una serie di innovazioni tecniche, utilizzando per la produzione la forza motrice meccanica (prima dall'acqua e poi dal vapore), trasformò il processo produttivo, trasferendolo dalla casa o dalla bottega artigiana alla fabbrica in cui gran parte del lavoro era affidato alle macchine e svolto in équipe, così da sostituire la piccola produzione precedente, affidata a un uomo o a pochi uomini che lavoravano con strumenti o meccanismi azionati dalla forza delle loro braccia. Questo cambiamento decisivo non si sarebbe però potuto attuare soltanto quale risultato di innovazioni tecniche. Infatti, come rileva M. Dobb in Capitalismo ieri e oggi (trad. it. 1963), la prontezza con cui i primi capitalisti adottarono queste innovazioni, adattandole alle esigenze della produzione e del mercato, dipese dalla maturazione di una serie di precedenti sviluppi che si estendono lungo un arco di tempo piuttosto ampio. Ossia, la pre-condizione fu l'esistenza di una classe di uomini abituati a impiegare il capitale nel commercio e nell'industria. Un'altra condizione fu l'esistenza di rilevanti capitali mercantili, in grado di estendere il credito e di aprire sbocchi commerciali. Infatti, i rapporti di produzione capitalistica erano venuti maturando nel corso di oltre due secoli prima dell'avvento della r.i. La forma caratteristica dell'organizzazione industriale nelle città medioevali era la corporazione che comprendeva normalmente, oltre al padrone, ossia il "maestro", anche i lavoratori giornalieri, seguiti nella scala aziendale dagli apprendisti. Teoricamente si poteva entrare nella corporazione soltanto attraverso l'apprendistato: col tempo l'apprendista diventava operaio che, a sua volta, aspirava a diventare maestro e padrone. Questo meccanismo teorico del sistema corporativo non ebbe neppure ai suoi inizi totale applicazione pratica e col tempo esso andò realizzandosi sempre meno, dato che, con l'accumulazione capitalistica, le imprese artigiane si ampliarono, impiegando un sempre maggior numero di operai e rendendo perciò molto difficile la loro promozione nella scala gerarchica dell'azienda. Così, nel XVII sec., per quanto il sistema corporativo esistesse ancora, esso appariva in Inghilterra in netta decadenza e aveva perduto gran parte del monopolio della produzione, trasferita dai nuovi imprenditori in aree periferiche, non soggette alle leggi corporative. Lo sviluppo del capitalismo subì una battuta di arresto in seguito alla guerra civile del XVI sec., ma la vittoria del parlamento portò con sé la vittoria degli interessi commerciali, mentre la successiva restaurazione non compromise la vittoria dei mercanti. Il nuovo assetto dell'Inghilterra, confermato dalla rivoluzione del 1688, era basato sull'alleanza di mercanti e proprietari terrieri: l'aristocrazia terriera conservò il potere politico, ma la parte essenziale dell'accordo stabiliva che doveva essere esercitato nell'interesse del commercio. La fine del XVII sec. e la prima parte del XVIII furono un periodo di grande espansione commerciale. La potenza mercantile britannica, sottratto il primato a quella olandese, spinse il commercio britannico assai lontano verso Oriente e Occidente. In tali condizioni i patrimoni venivano accumulandosi rapidamente. La fine del XVII sec. portò con sé, quale conseguenza dello Stato nelle guerre contro la Francia, gli inizi del debito pubblico e la fondazione della Banca d'Inghilterra, che si dimostrarono entrambi dei potenti strumenti per lo sviluppo del capitalismo. Dopo la guerra, un lungo periodo di pace consentì al commercio di svilupparsi con ancora maggiore rapidità, portando a un considerevole arricchimento sia dei mercanti che dell'aristocrazia terriera. Arricchimento che, quest'ultima, conseguì accrescendo in modo cospicuo i suoi patrimoni soprattutto attraverso matrimoni contratti con famiglie di commercianti. Pertanto, si assistette a una progressiva integrazione delle due classi sociali alleate in una stretta comunanza di interessi. Infatti, prima della r.i., la maggiore industria inglese era costituita dalla lavorazione della lana, ossia da un tipico prodotto dell'agricoltura; per cui lo sviluppo dell'industria laniera rappresentò anche una garanzia di sviluppo per i proprietari terrieri (aristocrazia). Era quindi naturale che il parlamento, rappresentato prevalentemente da proprietari, si dimostrasse sempre pronto a dare protezione legislativa all'industria laniera, mentre da parte loro i mercanti e i fabbricanti di stoffe non avevano alcun interesse ad abbattere il controllo politico dei proprietari terrieri finché l'aristocrazia inglese, a differenza di quella dell'Europa continentale, era anche socialmente aperta agli uomini d'affari di successo. Questa condizione di cose, come rileva Cole, nettamente contrastante con quella della chiusa aristocrazia francese, costituì il segreto del sistema oligarchico britannico, e soltanto quando gli imprenditori industriali desiderarono partecipare direttamente al potere politico, la riforma elettorale divenne un problema di politica pratica. Tuttavia, mentre in Francia fu necessario arrivare a una rivoluzione politica, in Inghilterra si ebbe soltanto una modesta riforma parlamentare. ║ Dalla recinzione dei campi alla rivoluzione dell'industria: nel corso del XVIII sec. lo sviluppo dell'industria laniera e l'espansione generale del commercio e della ricchezza, creata dal commercio, resero la terra più costosa e più redditizia; mentre, contemporaneamente, il desiderio dei mercanti di acquistare, mediante la proprietà terriera, anche una parte di prestigio sociale e di potere politico, valse, a sua volta, a fare accrescere il prezzo della proprietà terriera. Il processo si svolse dapprima mediante la riunione in un'unica proprietà di più fattorie e la recinzione delle terre incolte, in modo da creare appezzamenti più adatti per l'allevamento del bestiame e per la coltivazione. Successivamente venne dato l'assalto all'antico sistema di proprietà terriera dei villaggi (sistema dei campi comuni), in quanto esso poneva ostacoli allo sviluppo dell'agricoltura specializzata. Da qui, il rapido sviluppo del movimento per la chiusura dei campi comuni durante il XVIII sec. Secondo le nuove leggi, la terra doveva essere cintata e, spesso, bonificata, così che il contadino al quale mancava il capitale per eseguire tali lavori era in molti casi costretto a vendere sottocosto il suo appezzamento ai grandi proprietari, mentre i contadini che non possedevano terre, ma godevano solo dei diritti comuni legati al possesso di una casa, perdettero, senza ricevere alcun compenso, i loro mezzi di sostentamento, dato che il loro bestiame non poteva più pascolare nei campi comuni, essendo diventati proprietà privata. Pertanto, molti contadini, anche quando rimanevano nei villaggi, furono ridotti alla condizione di operai salariati. Inoltre, due altri fattori contribuirono a impoverire ancor più le loro condizioni: i nuovi sistemi di conduzione agricola, basati su proprietà molto estese, richiedevano assai meno mano d'opera che in passato; mentre, contemporaneamente, i nuovi sistemi di conduzione industriale delle aziende tessili portarono all'eliminazione della figura del filatore a domicilio (sistema domestico), un lavoro in cui erano impegnati interi gruppi familiari, soprattutto donne e bambini. Da una parte, quindi, il movimento per la chiusura dei campi produsse un eccesso di lavoratori agricoli, contribuendo alla diminuzione dei salari agricoli; dall'altra parte la famiglia contadina vide inaridirsi anche la seconda fonte di guadagno, quella che le proveniva dall'industria attraverso la filatura a domicilio che, fino a quando non fu adottato un macchinario specializzato, l'imprenditore non aveva nessun vantaggio a far svolgere direttamente, concentrando il processo lavorativo nello stabilimento industriale. Pertanto, la famiglia contadina, che coi guadagni del lavoro svolto per conto dell'industria riusciva ad ampliare il reddito agricolo, vide quest'ultimo ridotto o eliminato dai provvedimenti di chiusura dei campi mentre, parallelamente, il processo di r.i. le sottraeva anche la seconda fonte di guadagno, poiché negli ultimi decenni del XVIII sec. la filatura si trasferì dalle case dei contadini alle fabbriche, eliminando il guadagno supplementare delle donne e dei bambini, e quello dei tessitori a mano. Si venne inoltre a creare uno squilibrio territoriale, dato che le nuove fabbriche e miniere si andavano sviluppando soprattutto nel nord e non erano facilmente raggiungibili dai nuovi poveri delle regioni meridionali, per cui all'eccesso di manodopera dell'Inghilterra meridionale corrispose, per qualche tempo, una relativa scarsità nelle zone di crescente sviluppo industriale, cui si ovviò in parte con l'immigrazione dall'Irlanda e attraendo manodopera dai più vicini distretti agricoli. Pertanto, i lavoratori agricoli furono costretti a emigrare a migliaia verso le zone industriali per cercare lavoro nelle odiate fabbriche, mentre quelli che rimanevano nelle campagne del sud vedevano ogni giorno di più abbassarsi il livello dei loro salari reali, dato il crescente costo della vita. Infatti, le lunghe guerre con la Francia, tra il 1793 e il 1815, accentuarono gravemente i mali provocati da questa doppia rivoluzione economica, portando a cospicui aumenti e a rapide fluttuazioni dei prezzi, ai quali i salari stentavano ad adeguarsi. Pertanto, la r.i. si sviluppò come punto culminante di un processo di sviluppo economico iniziato molto prima. Un processo che, nel giro di poche decine di anni, tra l'ascesa al trono di Giorgio III e quella di suo figlio Guglielmo IV (1760-1820), mutò volto all'Inghilterra. Spesso si è portati a considerare, erroneamente, la r.i., ossia l'introduzione delle macchine nel processo produttivo, come il risultato della capacità di scienziati, inventori e uomini d'affari che, improvvisamente, scoprirono i mezzi per sfruttare e sviluppare le forze della natura, consentendo così di produrre ricchezza. Ancor più lontana dalla verità è la tendenza a presentare le scoperte come risultato del genio creatore individuale e non invece di un processo sociale. Nella realtà, per quanto molti siano stati i meriti delle nuove scoperte scientifiche e tecniche, il processo fu di tipo essenzialmente economico-sociale. Infatti, come rileva Cole, inventori e applicatori delle nuove macchine furono essi stessi piuttosto prodotti che produttori delle nuove condizioni, dato che, nel campo della chimica e della meccanica applicate, le nuove invenzioni avvennero sotto lo stimolo di una forte domanda di tali invenzioni da parte del capitale. Infatti, l'invenzione è destinata a rimanere fine a se stessa finché il mondo non è pronto a una sua applicazione produttiva, e ciò è dimostrato dal fatto che molti dei principi su cui si basavano le nuove invenzioni erano già noti agli uomini di scienza molti secoli prima dell'avvento della r.i. Perciò, solo quando le condizioni socio-economiche furono mature, le grandi invenzioni tecniche divennero una conseguenza naturale. Questa interpretazione della r.i. si basa anche sul fatto che non vi fu una sola invenzione di questo periodo che possa essere con certezza attribuita a un singolo inventore. Rileva infatti Cole che James Watt non inventò la macchina a vapore, né Stephenson la locomotiva, ma entrambi apportarono migliorie a modelli precedenti, rendendoli più adatti all'uso industriale, e pressoché tutte le grandi invenzioni tessili possono essere attribuite a varie persone. Inoltre, la maggior parte delle scoperte furono compiute non da grandi geni che lavoravano su principi primi, ma da uomini comuni che compirono esperimenti sulla base del lavoro scientifico dei loro predecessori. Pertanto, le invenzioni furono così numerose e grandi perché i mercati, in rapida espansione, spinsero molti a meditare sulla possibilità di accrescere la quantità di merci disponibili e di rendere il lavoro più produttivo. Cole porta l'esempio del processo di lavorazione tessile: nell'industria domestica, su base familiare, i bambini potevano filare, ma non tessere, perciò la quantità di filo prodotta dalla famiglia tendeva a superare la capacità del tessitore di trasformarlo in stoffa. Era quindi necessario un processo di tessitura più rapido, e fu perciò introdotta la spola volante di Kay (l'invenzione di John Kay risale al 1733), che non solo soddisfece questa necessità, ma portò i tessitori a superare l'offerta di filo. Si dovette allora pensare al problema di un più rapido processo di filatura, ed ecco che le macchine di Hargreaves (un falegname e tessitore di Blackburn) e di Arkwright (che era un barbiere), introdotte tra il 1760 e il 1770, consentendo di accelerare il processo di filatura, rovesciarono nuovamente la situazione, finché la scoperta e il perfezionamento del telaio meccanico e nuovi miglioramenti nei processi di filatura stabilirono l'equilibrio all'inizio del XIX sec. E l'esempio potrebbe essere esteso a prossoché tutti i settori produttivi. Ne consegue che non si spiega la r.i. con le grandi invenzioni: sono le invenzioni che si spiegano con la situazione economica. Comunque, come rileva anche T.S. Ashton (La rivoluzione industriale, 1760-1830, ed. it. 1969), la congiuntura della crescente offerta di terra, lavoro, capitale rese possibile l'espansione dell'industria: il carbone e il vapore fornirono il combustibile e l'energia necessari per una produzione su larga scala, mentre la modicità dei tassi d'interesse e le buone prospettive di profitto fornirono l'incentivo. ║ Il capitale e la forza-lavoro: l'effetto delle nuove invenzioni ebbe enormi ripercussioni sulla situazione dei capitali impiegati e degli operai. Nei primi anni del periodo, gran parte delle unità industriali era costituita da piccole imprese e nella grande maggioranza delle industrie il capitale fisso richiesto non era superiore a quello che un artigiano poteva procurarsi coi propri guadagni. Ma, presto, gli impianti divennero tali da richiedere forti investimenti. In primo luogo, le nuove invenzioni accrebbero considerevolmente la produttività del lavoro, così che si rese necessario conquistare mercati assai più larghi per impiegare lo stesso numero di persone. Perciò l'introduzione delle nuove macchine, salvo che in un primo tempo, non provocò disoccupazione, poiché l'industria riuscì ad assicurarsi un mercato di vendita sempre più vasto. Esse però compromisero la posizione degli operai specializzati il cui lavoro poteva essere fatto da macchine azionate da donne o da bambini. Le nuove invenzioni offrirono quindi lavoro a una mano d'opera che, avendo minore potere di resistenza o un più basso tenore di vita, era disposta ad accettare bassi salari e a estendere la giornata lavorativa sino a una lunghezza disumana. Vi erano bambini, molti dei quali di appena sei-sette anni, costretti a lavorare sino a sedici ore al giorno, per sei giorni alla settimana, e comunque l'orario più breve applicato nel nuovo sistema fu di dodici ore. Era infatti di regola una settimana lavorativa di 84 ore, con brevi intervalli per la colazione e talvolta per il pranzo e la cena. Ma, ancor più importante fu che le macchine rivoluzionarono i metodi di produzione e sconvolsero l'assetto socio-ambientale: esse non potevano essere azionate economicamente da lavoratori sparsi, ma richiedevano la concentrazione della mano d'opera nelle fabbriche localizzate in luoghi determinati; inoltre esse resero le spese generali un elemento importante del costo di produzione. Il costo delle macchine, della loro manutenzione e del combustibile, doveva essere distribuito nella quantità maggiore possibile di mano d'opera, ragione per cui gli operai furono spinti a lavorare rapidamente, duramente e a lungo, in modo da ottenere il massimo profitto per il capitale impiegato. Pertanto, la produttività del lavoro aumentò non solo in proporzione alla maggior efficienza delle macchine, ma anche in proporzione del maggiore incentivo a usare queste sino in fondo; ossia, come rilevò Marx, fu accresciuta non solo la produttività ma anche l'intensità del lavoro. ║ Costo della vita e incremento demografico: la possibilità offerta dalle macchine di produrre quantità di merci assai maggiori divenne quindi un mezzo non per alleviare il lavoro, ma per accrescere gli stimoli e i pesi cui era sottoposto l'operaio. Inoltre, se da una parte il prezzo delle merci prodotte industrialmente diminuì, non così il costo della vita, sia perché la produzione agricola non poté essere aumentata nella stessa misura di quella industriale, sia perché dopo lo scoppio della guerra con la Francia nel 1793 le necessità belliche e l'inflazione provocarono un rapido aumento dei prezzi, in particolare di quelli dei prodotti alimentari. Contemporaneamente, l'offerta di mano d'opera andava aumentando a causa del forte aumento del tasso di incremento demografico. Basti pensare che in Inghilterra (limitatamente all'Inghilterra e al Galles), secondo calcoli approssimativi, dal 1500 al 1700 lo sviluppo della popolazione non oltrepassò il milione per ogni secolo, ma tra il 1700 (la popolazione era allora complessivamente di cinque milioni e mezzo) e il 1800 l'aumento fu di quasi tre milioni, mentre fra il 1801 (data del primo censimento che rilevò una popolazione di circa nove milioni) e il 1831 l'aumento fu di oltre cinque milioni, portando la popolazione complessiva a quattordici milioni (per l'intera Gran Bretagna sedici milioni e mezzo). L'aumento fu dovuto ovviamente alla diminuzione della mortalità, quale conseguenza delle migliori conoscenze mediche, ma ad esso contribuì anche, secondo un'interpretazione molto diffusa, la stessa r.i. Essa, infatti, creò una cospicua domanda di lavoro infantile nell'industria: i bambini potevano trovare lavoro, a salari molto bassi, quando il padre non ne trovava invece alcuno, per cui nei distretti industriali v'era anche un motivo economico per aumentare la famiglia. Inoltre, dal 1795 in poi, fu applicata la cosiddetta "legge sui poveri" che stabiliva un aumento dei salari inadeguati in modo da consentire un tenore di vita minimo a seconda dell'entità della famiglia, per cui chi aveva più figli poteva usufruire della legge sui poveri. Ma ciò che maggiormente contribuì all'aumento della popolazione fu la rottura degli antichi equilibri e costumi della vita di villaggio. Così, malgrado i miseri salari e le cattive condizioni igienico-sanitarie, la popolazione andò sempre più aumentando, concentrandosi nelle nuove città industriali e portando a un radicale mutamento della distribuzione geografica della popolazione; all'inizio del Settecento le zone più densamente popolate erano le regioni occidentali e le Midlands meridionali; nel corso del secolo la popolazione si spostò verso Nord nel Lancanshire e nello Yorkshire e verso le aree carbonifere della costa nord-orientale. Piccoli centri agricoli si trasformarono in grandi città industriali. Per esempio, Manchester, che nel 1770 aveva una popolazione di circa 40.000 abitanti, nel 1831 era salita a 238.000. L'improvviso balzo in avanti dello sviluppo demografico indusse il Malthus a concepire la sua famosa teoria che dominò il pensiero economico per un'intera generazione. Il Malthus indicò nello sviluppo illimitato della popolazione il pericolo di una pressione sui mezzi di sussistenza che avrebbe reso impossibile un aumento del tenore di vita oltre il livello minimo di sopravvivenza e che avrebbe facilmente scosso l'intero sistema sociale alle radici. Pertanto, la sua teoria produsse effetti decisamente negativi sull'atteggiamento dei ricchi verso i poveri: ogni bambino nato nella famiglia di un operaio finì con l'apparire come parte di una minaccia generale, e la legislazione si adeguò a questa nuova tendenza. Nel 1834 fu votata una nuova legge sui poveri che aboliva i sussidi agli individui sani e imponeva la segregazione dei sessi nelle case di lavoro. ║ Le due fasi della r.i.: dal punto di vista dell'offerta di lavoro si può dividere la r.i. in due fasi. Durante la prima fase, che giunge sin verso il 1800, si ebbe un eccesso di lavoratori nelle campagne, ma spesso una scarsità nelle aree industriali. E poiché non si riusciva ad attuare un'emigrazione in misura sufficiente, si ricorse all'impiego degli "apprendisti della parrocchia". Fu infatti questo il periodo durante il quale si verificò uno dei peggiori abusi della r.i., ossia l'impiego nelle fabbriche di bambini, appunto i cosiddetti "apprendisti della parrocchia" (divisione amministrativa rurale) che, in pratica, risultavano degli schiavi dei proprietari delle fabbriche. Infatti, si trattava di bambini che, a causa delle condizioni di indigenza della famiglia, erano stati posti sotto la tutela delle autorità preposte alla legge sui poveri. Autorità che si liberavano di loro cedendoli praticamente mediante un contratto di vendita della durata di un certo numero di anni ai proprietari delle fabbriche che, data la scarsità di manodopera, se ne servivano per azionare le macchine. Durante la seconda fase, invece, l'offerta di mano d'opera era adeguata alle necessità delle industrie che, perciò, non avevano più alcuna convenienza a impiegare gli "apprendisti della parrocchia", dato che potevano facilmente ottenere nelle aree industriali lavoro infantile a buon mercato. In tale periodo si verificò il grave declino della posizione dei lavoratori adulti, sostituiti dai loro stessi bambini, pagati naturalmente con salari molto bassi, per cui il tenore di vita diminuì. Queste condizioni assai sfavorevoli vennero rese ancora peggiori dalle difficoltà economiche provocate dalla guerra contro la Francia, che impegnò praticamente l'Inghilterra dal 1793 al 1815. La lunga guerra contro la Francia rivoluzionaria e napoleonica provocò una grave distruzione di ricchezza e notevoli fluttuazioni nell'impiego di mano d'opera, riducendo a livelli minimi il tenore di vita delle classi lavoratrici. Pertanto, come rileva il Cole, il periodo delle guerre con la Francia e delle crisi economiche che ad esse seguirono costituisce il capitolo più oscuro dell'intera storia della classe lavoratrice britannica. Un periodo che coincise per gran parte con quello della r.i. Allontanati dalla terra in seguito alla chiusura dei campi comuni, esposti alla concorrenza del lavoro infantile, soggetti a persecuzioni a causa dei timori suscitati nelle classi dominanti dalla Rivoluzione francese e dalla loro stessa miseria, ammassati nelle fetide abitazioni delle nuove città industriali, gli operai subirono una lunga agonia dalla quale riuscirono a emergere, esausti e docili, in età vittoriana. Pertanto, il movimento operaio britannico nacque come figlio di questa miseria. ║ Le trasformazioni economiche nel resto d'Europa: ma le trasformazioni conseguenti all'industrializzazione si fecero sentire più tardi anche negli Stati Uniti e nel resto d'Europa. Infatti, nel corso dell'Ottocento il processo di trasformazione si spostò verso Est, investendo vari Paesi europei e i suoi influssi e ripercussioni variarono a seconda delle condizioni e delle caratteristiche dei vari Paesi, e a seconda dell'epoca in cui si realizzò pienamente nelle diverse regioni. Come rileva David Thomson nella sua Storia d'Europa (trad. it. 1961), dopo il 1830, quando la macchina a vapore venne applicata anche ai trasporti, si ebbero nuovi e profondi mutamenti nella vita economica e nell'equilibrio delle forze fra i diversi Stati europei. E, anche se tali mutamenti non si verificarono con molta rapidità (in Francia i complessi industriali rimasero relativamente piccoli fino al Novecento e solo in questo secolo è iniziata l'industrializzazione di vasti settori dell'Europa centro-orientale) l'industrializzazione fu indubbiamente una delle maggiori forze di mutamento della vita sociale. La r.i. non va quindi considerata come un periodo di tempo, bensì come un "movimento". Infatti, sia che si presenti in Inghilterra a partire dal 1760, o in Francia, negli Stati Uniti e in Germania un secolo più tardi o, ancora più tardi in Russia, in Italia e in altri Paesi, i suoi caratteri e i suoi effetti appaiono fondamentalmente gli stessi. Dovunque essa si presentò associata a un aumento della popolazione, all'applicazione della scienza all'industria e a un impiego di capitale più intenso ed esteso. Per quanto nei vari Paesi il corso del movimento abbia subito l'influenza di circostanze particolari, dovunque si è verificata una conversione delle comunità rurali in comunità urbane e poi suburbane e alla nascita di nuove classi sociali, in un arco di tempo che può essere compreso tra il 1818 e il 1914. Quanto è avvenuto successivamente e sta avvenendo ora nei Paesi in via di sviluppo si è svolto attraverso modalità diverse da quelle che caratterizzarono, a suo tempo, l'industrializzazione dei Paesi oggi industrialmente sviluppati e, pertanto, sarebbe improprio parlare di r.i. a proposito del processo di industrializzazione delle economie arretrate. ║ La r.i. in Italia: prima dell'unificazione nazionale, ossia prima del 1860, l'Italia aveva appena cominciato a subire le conseguenze della r.i. europea. Il Paese mancava di materie prime e, nonostante la mano d'opera fosse abbondante, pochi erano i tecnici esperti. L'industriale dalle idee aperte e protese verso il futuro, che importava macchinari dall'Inghilterra, non trovava spesso nessuno in grado di montarli o di curarne la manutenzione. Inoltre, la disponibilità di abbondante mano d'opera non specializzata a basso costo non era certamente un incentivo alla meccanizzazione, considerato che le fonti energetiche scarseggiavano e che le macchine importate dall'estero erano piuttosto costose. Per di più, come rileva D. Mack Smith (Storia d'Italia 1861-1958, 1961), sia la mentalità dei ricchi che dei poveri era sfavorevole a un potente sviluppo industriale. Quel poco di industria che esisteva non si differenziava molto per caratteristiche di conduzione dall'agricoltura: gli abitanti dei centri urbani continuavano a possedere piccoli appezzamenti di terreno fuori porta, mentre durante l'inverno i lavoratori agricoli andavano a cercare lavoro in città. Gli scavi minerari erano eseguiti in genere da contadini e braccianti agricoli che dedicavano al lavoro di miniera soltanto una parte del loro tempo, mentre l'industria lombarda della seta si serviva largamente di donne che per la maggior parte dell'anno lavoravano nei campi, e anche quando l'industria domestica cedette il posto alle fabbriche che utilizzavano telai azionati meccanicamente, la coltura dei bachi da seta rimase una occupazione stagionale per i lavoratori agricoli. Il censimento del 1861 registrò quasi otto milioni di coltivatori e solo tre milioni di lavoratori impiegati nell'artigianato e nell'industria. Per di più, in massima parte si trattava di donne che non lavoravano stabilmente (secondo calcoli eseguiti nel 1880, a quell'epoca solo il 20% dei lavoratori dell'industria era costituito da maschi adulti). Per secoli, il denaro che avrebbe potuto stimolare la r.i. era rimasto nascosto, spesso in maniera del tutto improduttiva, nelle campagne. In Lombardia, l'unica regione che registrasse una costante eccedenza delle esportazioni rispetto alle importazioni, Carlo Cattaneo calcolava che nel 1850 gli investimenti nell'agricoltura superassero di cinque volte gli investimenti industriali. Per di più, il capitale investito nell'industria era in massima parte straniero: delle quattro grandi compagnie ferroviarie, tre risultavano interamente finanziate dall'estero e la quarta aveva solo una piccola percentuale di capitale italiano; la prima installazione di gas fu fatta per iniziativa straniera, e imprenditori stranieri possedevano buona parte dell'industria tessile e di quella cantieristica. Il capitale inglese era largamente presente in Sicilia nell'industria estrattiva dello zolfo (era questa, dopo l'industria della seta, al secondo posto fra le industrie esportatrici italiane; intorno al 1861 impiegava diecimila operai, per circa la metà costituiti da bambini), oltre che in quella vinicola e olearia, in quella alberghiera e in quella vetraria veneziana. In Piemonte e nel Napoletano era largamente presente il capitale francese, mentre in Lombardia prevaleva quello tedesco e svizzero. Pertanto, sino al periodo compreso tra la fine del XIX sec. e l'inizio del XX, non si può parlare di r.i. a proposito dell'Italia. Solo quando l'elettricità fornì finalmente energia abbondante e a buon mercato, le nuove fonti energetiche diedero un impulso decisivo al processo di industrializzazione italiana. In un'epoca dominata dal ferro e dall'acciaio, l'Italia era destinata necessariamente a trovarsi in condizioni di inferiorità. A migliorare la situazione non aveva certamente giovato la politica protezionistica seguita prima del 1860 dai vari governi a favore di industrie e metodi di produzione inefficienti. Quando il modello di politica adottato in Piemonte da Cavour, basato sulla libertà del commercio e sull'incoraggiamento soltanto alle poche industrie efficienti, venne esteso, dopo il 1860, al resto dell'Italia, le imprese meno produttive andarono in rovina e la vita industriale del Paese si concentrò nel triangolo tra Milano, Torino e Genova; cioè in una zona in cui le risorse idriche erano maggiormente accessibili, le comunicazioni migliori ed i mercati esteri più prossimi. Dopo il 1900, la concentrazione delle industrie nel Nord si fece ancora più accentuata; Milano continuò a rafforzare il suo predominio commerciale ed industriale e la sproporzione fra Nord e Sud non fece che aumentare col passare del tempo, con tutte le implicazioni di carattere socio-economico che il processo di sviluppo del secondo dopoguerra, soprattutto degli anni 1950-60, doveva accentuare.
La macchina a vapore di James Watt